Relazione di Paolo Pirani.
L’inizio dell’anno coincide con la conclusione della vicenda politica caratterizzata dal varo della Finanziaria che ha segnato un forte logoramento dei rapporti tra il Governo e l’opinione pubblica del Paese, mentre ancora una volta le acque della politica italiana cominciano a venire agitate dalla minaccia di un nuovo referendum elettorale. Le difficoltà più gravi, le abbiamo registrate con la predisposizione, la presentazione e la discussione parlamentare della Finanziaria. E’ stato il presidente Ciampi il primo a suonare l’allarme: attenti, disse subito, va reso più chiaro il senso di una missione per il paese, perché, non ci si può impegnare in una manovra straordinaria di 35 miliardi di euro – una manovra che finisce per colpire innumerevoli grandi e piccoli interessi particolari – se il Paese non ne comprende e condivide il significato complessivo e generale. Una Finanziaria che il paese in buona misura non ha capito. Un’occasione sprecata sul terreno dello sviluppo, quindi. Fa bene, tuttavia chi sottolinea che i risultati potranno vedersi più avanti. Peraltro, i dati sulla importante riduzione del fabbisogno statale dimostrano che si sono eccessivamente sottostimate le entrate e sovrastimate le uscite.
- Non c’è stato un filo che riconducesse il governo al paese, che lo mettesse in sintonia con una società logorata e che attende qualcosa di più.
- Se guardiamo al paese ciò che emerge è una profonda esigenza di equità e giustizia concentrata soprattutto nelle fasce più deboli
- Il problema è che la politica non è vissuta come uno strumento al servizio di quel riscatto ma come una parte del problema
- Nasce da qui il pericolo di un nuovo populismo, dal fatto che le forme dell’esclusione sfuggono alle mediazioni tradizionali della politica
- Da dove passa lo slancio innovatore?
- Stabilizzare 200 mila precari nella P.A. è innovativo o in continuità col passato? E d’altronde stabilizzare chi lo merita e ragionare di produttività nella P.A., condurre sul reddito una battaglia per la dignità delle persone e il riconoscimento delle capacità, tutto questo è più rischioso ma più coerente con l’innovazione di cui ha bisogno il paese
- È importante l’idea che i cittadini si faranno delle nostre idee se le percepiranno come novità piuttosto che come continuità con il passato
- La sfida è con la modernizzazione del paese e con una società radicalmente mutata
- Noi dobbiamo discutere senza timori di cosa vogliamo cambiare di come marchiamo una discontinuità.
Nel paese tutti i settori della società e dello Stato sono in sofferenza: dalla sanità alla giustizia, dalla sicurezza alla scuola, dalle infrastrutture alla ricerca, dagli enti locali all’assistenza, non c’è settore che non si percepisca come sottofinanziato e non domandi maggiori risorse. D’altra parte il vero differenziale è l’enorme debito pubblico accumulato. Mentre, infatti, la percentuale di prodotto interno lordo che l’Italia destina ai 3 vari settori di spesa pubblica è nella media europea, l’incidenza di una spesa per interessi sul debito è quasi il doppio dell’area dell’Euro.
Insomma: senza un rilancio della crescita di almeno il 2% all’anno, sono impensabili sia un politica di investimenti, sia una significativa redistribuzione orizzontale, da un settore all’altro. La verità è che il vero problema del Paese è il grave ritardo, accumulato negli anni, nella modernizzazione complessiva del nostro sistema economico e sociale. Non si tratta tanto di “tagliare”, perché non ci sono margini per significativi tagli quantitativi alla spesa. Si tratta, invece, di riqualificare, risanare, razionalizzare, ristrutturare. Bisogna fare di più e meglio con le stesse risorse. Il che, spesso, è molto più difficile che tagliare.
Ridare slancio al Paese, creare condizioni di crescita e efficienza in ogni settore, offrire a ciascuno l’opportunità di scommettere sul proprio talento, sulla propria voglia di fare. In una parola dare il senso di una sfida comune. Così possiamo restituire ad una società frammentata il senso di un’appartenenza, di un comune destino, di un essere Nazione. Le difficoltà ci parlano di una crescente estraneità dei cittadini alla vita politico-istituzionale. Come potrebbe non essere così di fronte ad una politica che troppo spesso si manifesta non già impegnata a scegliere, a costruire, a fare, quanto piuttosto dispersa nel chiacchiericcio inconcludente, nell’esternazione estemporanea, nella quotidiana ricerca di una piccola visibilità fine a se stessa? Serve la messa in campo di nuove energie coesive che spingano la politica, la classe dirigente nel suo insieme e in definitiva la società italiana tutta, a trovare il senso, la passione, la determinazione a perseguire l’interesse 4 generale non come mortificazione ed appiattimento mediocre, ma come valorizzazione del talento e del merito, visti come prezioso bene collettivo. Questo non può essere frutto di una politica economica, ma ne è semmai il presupposto. Il Paese, le imprese e i cittadini, chiedono oggi una amministrazione più efficiente: uno Stato migliore. E questo obiettivo deve essere perseguito non inseguendo mode effimere ed inutili, quando non addirittura dannose, quanto piuttosto ripristinando un sistema basato sul rigore nell’applicazione delle regole, sulla chiara individuazione delle responsabilità amministrative e sul conseguente riconoscimento delle capacità decisionali in capo ai soggetti titolari delle relative funzioni. Il passaggio a uno Stato efficiente può, cioè, avvenire solo se si interviene su quei perversi meccanismi che da troppo tempo bloccano uno sviluppo serio della nostra P.A.; solo eliminando iniqui privilegi e ridando fiducia e opportunità al cuore nevralgico del sistema sarà possibile migliorare l’attuale. I tentativi di introdurre nella nostra P.A. criteri meritocratici, processi di valutazione delle prestazioni, rapporto fra retribuzione e qualità della prestazione non hanno fin qui sortito gli effetti che ci aspettavamo. E i primi ad essere penalizzati da tale situazione sono proprio i tantissimi pubblici dipendenti capaci e motivati ma che oggi sono disincentivati a perseguire obiettivi di efficienza. Aver consentito che si affermasse come regola generale della nostra amministrazione quella secondo la quale “il merito non paga” causa un doppio danno: consente di premiare impiegati pigri e poco capaci e demotiva quelli che, viceversa, sarebbero più competenti e impegnati. Ma le colpe sono spesso del datore di lavoro: lo Stato. Non c’è dubbio che la pubblica amministrazione sia, per la sua stessa natura, un datore di lavoro 5 “debole”. Il datore di lavoro pubblico è infatti interessato soprattutto alla massimizzazione del consenso politico. Negli ultimi dieci anni si è assistito a una costante serie di riforme che avrebbero dovuto, almeno negli annunci, incidere radicalmente sull’ organizzazione del lavoro pubblico (si pensi alle varie riforme del sistema scolastico) e conseguire obiettivi di finanza pubblica “rigorosi” per alleggerire l’economia nazionale del peso, sempre più gravoso, del debito pubblico. Nel totale e condiviso rispetto del valore fondamentale dello Statuto dei Lavoratori appare necessario mettere le basi per una nuova stagione delle relazioni tra sindacato e pubblica amministrazione. L’avvio di una riflessione più generale sulla necessità di risolvere certe interferenze, se non sovrapposizioni, tra la sfera politica e quella amministrativa rappresenta il segnale più tangibile di un’anomalia che ha le sue inevitabili ripercussioni anche nella gestione ordinaria della amministrazione pubblica. Sarà opportuno orientare il confronto sul ruolo del sindacato nella P.A. a principi di equità tra settore pubblico e settore privato, nel solco di una politica di lotta agli sprechi e alle inefficienze nelle pubbliche amministrazioni, rivendicando una vera politica per il pubblico impiego. La politica deve essere cultura, scuola di civismo, insegnamento dell’importanza della gestione della res pubblica e quindi scuola di responsabilità e di doveri. La UIL in particolare per le caratteristiche che la contraddistinguono può allargare il proprio spazio nella società e nel mondo del lavoro, proprio affrontando con decisione i temi che si ritiene essere ostativi allo sviluppo del Paese. 6 Il primo fra tutti è la destinazione al sociale delle risorse economiche che oggi copiosamente vengono drenate dall’esercizio del potere, da non confondersi con i costi della democrazia che sono altra cosa. Appannaggi di governatori, presidenti, sindaci, assessori, ministri, parlamentari, consiglieri, gestori di agenzie strumentali attorniati da masse sempre più numerose e onerose di consulenti, collaboratori, portaborse e appaltatori assorbono in modo inaccettabile risorse da destinare in adeguate azioni di modernizzazione e efficienza del servizio e di valorizzazione del lavoro. Il sindacato, la UIL possono rappresentare la forza propulsiva di rilancio, di innovazione. Dobbiamo saperci mettere alla testa dell’inevitabile azione riformista del Paese anche per togliere ogni alibi a chi scarica sul più o meno presunto conservatorismo sindacale proprie responsabilità di insipienza politica o soggezione corporativa. E’ necessario che proprio dai livelli dirigenti e professionali si torni a considerare la meritocrazia, come strumento di valutazione corretto e garantito da parametri di valutazione certi e partecipati. Il settore pubblico è considerato un costo, noi consumiamo risorse: è vero. Anzi nel tempo i costi di alcuni settori, sanità, ricerca, scuola, ecc. saranno destinati ad aumentare. Ma il problema vero è stabilire se questi costi sono investimenti destinati a fornire servizi adeguati e, contemporaneamente, a diventare volano di sviluppo ed innovazione, oppure no. Quindi chiediamo e offriamo impegno di maggiore efficienza. Una Pubblica amministrazione sempre più efficiente e sempre più attenta alle esigenze dei cittadini e delle imprese rappresenta un fattore decisivo per la 7 crescita economica. Bisogna evitare quindi che proprio l’eccesso di burocratizzazione possa costituire uno dei maggiori ostacoli al dispiegarsi di un progetto di sviluppo. Anche la Pubblica amministrazione, insomma, è un’autentica risorsa poiché la sua efficienza può trasformarsi in efficienza per il Paese. Per affermare e radicare questo principio e per esercitare un ruolo più concreto in questa direzione, Il Sindacato ha bisogno di disporre di un effettivo sistema contrattuale articolato e decentrato che lo metta in condizioni di incidere sui processi riorganizzativi e di tutelare con maggiore efficacia, secondo criteri di trasparenza, professionalità e produttività, i lavoratori della Pubblica amministrazione, come condizione necessaria per il pieno soddisfacimento dei bisogni dei cittadini e delle imprese. Nonostante le enormi difficoltà esistenti, se la macchina amministrativa continua a funzionare lo si deve a milioni di persone che lavorano al servizio della collettività. Una adeguata valorizzazione del lavoro pubblico sarebbe, dunque, un elemento oltre che di giustizia anche di efficienza economica. Una conquista culturale degli anni ’90 in Italia è stata quella di considerare il settore pubblico una risorsa collettiva che andava valorizzata, ponendo al centro i servizi, i bisogni dei cittadini e delle imprese e, quindi, le professionalità necessarie per avere un’amministrazione moderna. I processi avviati negli ultimi anni di riqualificazione del personale (oltre 2 milioni di riqualificazioni), di investimento in e-government, di creazione di consorzi e società partecipate avrebbero dovuto portare ad un’amministrazione più snella e più efficace. Le riforme di questi anni dovevano avere al centro l’efficienza e la qualità dei servizi, andando incontro alle imprese e ai cittadini. Abbiamo assistito invece ad una delle tante 8 collusioni che caratterizzano il nostro Paese e che hanno portato ad avere un’amministrazione usata come ammortizzatore sociale nonché come patrimonio privato della politica. Un’amministrazione utilizzata per produrre consenso e non servizi secondo logiche premoderne. Chiunque gestisca un’organizzazione, pubblica o privata che sia, sa bene che il successo e l’efficienza non derivano dal numero di persone impiegate, ma dalla qualità delle stesse. Gli investimenti fatti in questi anni nel settore pubblico, tra aumenti contrattuali, passaggi di carriera e investimenti in tecnologie, dovevano portare ad un’amministrazione di professionalità e di competenze, senz’altro più leggera ma, al contempo, più efficace. Chi vuole un settore pubblico che funzioni non può sostenere un incremento del personale senza concorso e in maniera indiscriminata, prescindendo dai fabbisogni e dalle funzioni. Le imprese, così come i cittadini, hanno il diritto ad avere funzionari e dirigenti pubblici preparati e autorevoli nella P.A. Indebolire la dirigenza con continui spoil system, anche ad personam, non fa altro che bloccare il processo di aziendalizzazione e favorire l’occupazione “patrimoniale” delle strutture e delle risorse pubbliche. Anche il Governo precedente aveva promesso liberalizzazioni e meno Stato. Abbiamo avuto, invece, più e peggiore Stato, consumando aspettative e speranze di imprenditori e cittadini. Gli enti inutili non sono stati né individuati, né soppressi. Al contrario, migliaia sono state le società partecipate, i consorzi, le unioni di comuni, le province, le aziende speciali, gli ambiti territoriali e altro, creati dalle pubbliche amministrazioni negli ultimi cinque anni per aggirare le norme sul patto di stabilità e sulla concorrenza in materia di servizi. Il tutto si è esaurito in una serie di incrementi retributivi, che si rivelano, alla luce dei livelli dei servizi, 9 eccessivi per chi non produce e irrisori per chi è preparato e si impegna con entusiasmo. Non si comprende, infine, l’importanza che rivestono i comportamenti dei soggetti pubblici in termini di buoni esami e di etica pubblica. Far capire ai tanti giovani italiani preparati che è premiante stare dietro una segreteria di un assessore o di un amministratore per strappare un contratto flessibile, che poi diventerà a tempo indeterminato, piuttosto che impegnarsi e studiare è il peggior messaggio che una classe dirigente politica può dare al futuro del proprio Paese. Far sapere che il dettato costituzionale che prevede la selezione pubblica e il merito può essere agevolmente sacrificato sull’altare della politica è altrettanto grave e irresponsabile. Dire infine che “le tipologie contrattuali non a tempo indeterminato” sono di per sé “lavoro precario” rasenta l’assurdo, introducendo giuridicamente un giudizio ideologico sul lavoro a termine che danneggia gravemente il mercato del lavoro italiano e il quadro delle opportunità per gli outsider, ovvero i giovani. La politica pensa erroneamente che per avere i voti dei dipendenti basti rinnovargli i contratti nel modo in cui avviene ormai da decenni: in ritardo e senza collegare la retribuzione alla prestazione e all’innovazione. I dipendenti pubblici sono capitale umano che vorrebbe essere motivato con obiettivi utili e con un’organizzazione del lavoro e competitività. La riforma del Titolo V doveva portare ad una riduzione delle amministrazioni centrali dello Stato e, invece, ha portato ad un proliferare di legislazioni e di apparati che rendono ancora più difficile introdurre criteri di responsabilità e di meritocrazia. L’atteggiamento dei partiti nei confronti del settore pubblico fa emergere tutta la debolezza della odierna classe politica, impegnata ad inseguire le paure e i 10 particolarismi di una società inevitabilmente aperta ai processi di trasformazione globali, piuttosto che attenta e preparata a far fronte alla domanda di governo che viene dal paese. Su questo terreno, si giocano molte partite importanti che riguardano: la capacità della Pubblica Amministrazione italiana di offrire ai cittadini/utenti una gamma di servizi confrontabile, per qualità, accessibilità, tempi e tariffe, nonché per ampiezza di bisogni coperti, con l’offerta pubblica dei paesi ad economia avanzata e, soprattutto, dei principali partners europei; il problema dei costi della Pubblica Amministrazione; la “questione lavoro” nella Pubblica Amministrazione”. Non è da oggi che il sindacato rivolge alla Pubblica Amministrazione ed al lavoro pubblico un’attenzione che va ben oltre la difesa dei diritti e delle legittime aspettative dei lavoratori pubblici, per coniugare quelli e queste con i diritti e le aspettative, altrettanto legittime, dei cittadini e degli utenti. Abbiamo condotto a termine la riforma del rapporto di lavoro pubblico, con il decreto 29 del 1993. Abbiamo dovuto superare le resistenze che pure c’erano nelle nostre organizzazioni e tra la nostra gente, le ostilità di altre organizzazioni – o sedicenti tali – e le reticenze di una politica che vedeva sconvolgersi un sistema al quale, nobilmente o meno, si era abituata e che essa stessa aveva alimentato e voluto. La privatizzazione del rapporto di lavoro ed il principio della responsabilità dirigenziale sono stati affermati e sono divenuti istituti normativi. Ancor oggi, il decreto 29, come rivisitato dal D. Lgs 165 – e successive modificazioni -, è l’asse portante del lavoro pubblico. 11 Vogliamo rinnovare qui oggi questa sfida, e lo facciamo dicendo alcune delle cose che crediamo si possano fare, e quale cammino proponiamo per farle. L’indicazione per i contratti, di risorse importanti – e comunque molto maggiori di quanto era nelle prime riflessioni della finanziaria – è una vittoria del sindacato. Così come la difesa della biennalità degli effetti economici dei CCNL, e la fissazione di tempi certi – e sensibilmente più brevi di quelli che di fatto si realizzavano – per l’esigibilità dei Contratti sono due dati positivi importanti. Se il Governo saprà e vorrà stringere i tempi, pensiamo alla sottoscrizione del protocollo sul lavoro pubblico che, ricordo, non può che partire dalla considerazione della valenza positiva della Pubblica Amministrazione e, in essa, di quella del lavoro e dei lavoratori. Da questo momento di alta condivisione dovrà prendere avvio un serrato confronto che, definisca impedimenti derivanti da norme di legge e modifiche legislative della cui promozione si farà carico il Governo. Insieme, dovranno essere individuati criteri generali utili alla misurazione dell’efficacia e qualità dell’azione della Pubblica Amministrazione, prevedendo anche sistemi di valutazione basati sulla percezione di cittadini ed imprese. In ciò potrà aiutare un approccio nuovo che tenga, ad esempio, conto delle riflessioni delle organizzazioni rappresentative degli utenti e delle parti sociali. Ovviamente, senza cedere a stravaganti modernismi che confondano i ruoli e le responsabilità amministrative e contrattuali delle amministrazioni pubbliche e del sindacato. Si possono ipotizzare vere e proprie conferenze di 12 servizio per le diverse amministrazioni e i diversi enti, nonché la creazione di consigli di vigilanza ed indirizzo con la completa accessibilità e trasparenza dei risultati dei nuclei di valutazione esistenti. Contemporaneamente, nel confermare appieno la valenza della contrattazione collettiva e della sua impalcatura strutturale, si dovranno definire indirizzi e temi sui quali i prossimi CCNL individueranno misure e norme conseguenti. Cito alcune delle materie su cui il sindacato ritiene che si debba confrontare:
- definizione degli incrementi contrattuali in continuità ed in analogia con i protocolli degli anni 2002 e 2005;
- ridefinizione dei comparti, semplificandone il numero, e battendo le logiche separatiste e parcellizzanti;
- piano di stabilizzazione del “precariato” nelle pubbliche amministrazioni, allo scopo di fissare le operatività necessarie ad applicare le specifiche norme della finanziaria e, cosa non secondaria, per evitare che, nei CCNL e nelle contrattazioni di secondo livello, qualcuno voglia innescare, ad esempio sul terreno delle risorse, una sorta di guerra tra poveri, i precari e gli stabili;
- formazione ed aggiornamento del personale, materia che deve fare un salto di qualità generalizzato sia nella qualità-vastità dell’offerta formativa che nella previsione di risorse ad hoc;
- previdenza integrativa, recuperando un immotivato e penalizzante gap relativamente all’impiego privato. Ricordo che il sistema previdenziale pubblico vede un progressivo abbassamento del tasso di sostituzione, cioè il rapporto tra ultima retribuzione e pensione, che studi del Centro Analisi delle Politiche Pubbliche del Ministero del Lavoro prevedono, per il 2050, per un valore pari al 30%.;
- politiche occupazionali, uscita anticipata dal servizio e pianificazione compartimentale del turn over, e mobilità, da considerare, e sostenere con norme specifiche, se strumento positivo di sostegno dei processi di riforma;
- riassetto normativo-economico della dirigenza, della sua contrattazione e degli specifici sistemi di valutazione;
- l’accesso all’impiego pubblico, per il quale deve restare privilegiata la via del pubblico concorso, ricercando nuove forme più modernamente adatte dei soli età e titolo di studio per individuare arruolamenti di qualità;
- semplificazione delle procedure di contrattazione, ancora oggi, nonostante gli emendamenti passati in finanziaria, appesantite e subissate da troppi elementi pubblicistici;
- qualità ed obiettivi della contrattazione integrativa, da valorizzare, quale occasione di riconoscimento delle specificità di singola amministrazione e per il riconoscimento del livello d’impegno individuale.
Per questi motivi va aperta al più presto la stagione dei rinnovi contrattuali. Vorremmo farlo, a valle di una grande intesa, che credo sia dovuta ai lavoratori pubblici, un grande patto, del quale ho accennato alcuni possibili tratti. E questo, per evidenti motivi di conseguenzialità e di organicità. Ma, se non sarà possibile, noi le contrattazioni le faremo comunque, e, ancora comunque, non cederemo di una virgola rispetto alle nostre idee ed alle nostre impostazioni. I contratti dovranno consentire il pieno riconoscimento del ruolo del sindacato quale componente positiva per il funzionamento della macchina pubblica. Di conseguenza, il sistema delle relazioni sindacali andrà potenziato in modo omogeneo – oggi da comparto a comparto è fortemente differenziato – e le contrattazioni integrative e decentrate dovranno essere liberate per consentire loro di garantire, nella singola amministrazione e nel singolo territorio, la migliore aderenza del servizio pubblico alle realtà specifiche. Questa è la nostra sfida, non è il ritorno al vecchio. Non è statalismo ma è la necessità di far leva sul fatto che un lavoro sempre più personalizzato e intelligente è la chiave di volta di una società avanzata. Ed è in questo quadro più ampio che vanno riproposte le grandi questioni sociali. E’ partendo da qui che si capisce meglio la rinnovata centralità della questione sociale. Il capitale umano, la sua qualità, e la condizione per reggere questa sfida, è il lavoro qualificato che non solo richiede conoscenza ma crea, al tempo stesso, un nuovo contesto sociale più aperto e più civile. E quindi produce conoscenza. Così diventa chiara la necessità di un nuovo patto sociale basato non sulla precarietà e sullo svilimento del lavoro ma sulla sua valorizzazione. Realizzare tutto ciò comporta prima di tutto la ricostruzione di quel patto di cittadinanza senza il quale una comunità non sta insieme: l’uguaglianza della legge, l’equilibrio dei poteri e il rispetto delle istituzioni neutrali e di garanzia, la libertà di informazione e la separazione tra interesse pubblico e affari privati. Al tempo stesso, va attuata la riforma e la modernizzazione del sistema istituzionale. Insomma un’opera non semplice di ricostruzione della democrazia italiana su basi più solide e sui valori di fondo condivisi. Basi, dunque, non soltanto politiche ma economiche e sociali. Di qui la necessità di una nuova alleanza tra le forze più creative del lavoro, dell’impresa e dell’intelligenza, interessate a smantellare il grumo di conservatorismi vecchi e nuovi che attraversano la società italiana. Ma non può trattarsi di una riedizione della vecchia alleanza tra produttori, non solo perché al posto della vecchia società industriale c’è una società molecolare e dei servizi e, quindi, i grandi patti neo-corporativi non sono riproponibili. Ma anche perché meno che mai i soggetti si definiscono solo in base al reddito, più che mai contano la coscienza di sé, i valori, la consapevolezza che i propri interessi immediati non sono difendibili se non in un contesto di espansione delle libertà. Un’idea della libertà intesa come piena possibilità di affermazione delle proprie facoltà, in un mondo nel quale sempre più la volontà di ciascuno di determinare il proprio destino lavorativo diventerà la condizione del vivere. Ed è evidente che la condizione per affermare se stessi è la cultura e la formazione, ma è anche la sicurezza come costruzione di nuove reti di protezione, come nuove funzioni pubbliche e come produzione di nuovi beni collettivi. Quel che sarà l’Italia nei prossimi anni dipende anche da noi e dalle nostre scelte. Quanto più saremo capaci di guardare al futuro tanto più la nostra funzione dirigente sarà utile all’Italia. Quanto più saremo fattore di coesione e di cambiamento, tanto più i cittadini si riconosceranno in noi e nella nostra politica. 16 Ed è con la consapevolezza di questa enorme responsabilità che noi della UIL dobbiamo guardare agli uomini e alle donne che da noi attendono risposta alle loro ansie, ai loro bisogni e alle loro speranze. Che non il pregiudizio ideologico ci muova, né l’appartenenza politica ma in primo luogo l’amore per questa nostra Italia.